di Salvo Barbagallo
Quella del terrorismo jihadista è una (lunga) atroce storia a puntate. No, non è certo una telenovela, ma una tragedia non-stop che diversi Paesi del Medio Oriente vivono direttamente da anni e, adesso, vissuta direttamente anche dall’Europa. E’ una storia con molti soggetti, con molti protagonisti e con figuranti che vogliono diventare primi attori, ma la regia di questa “rappresentazione” quotidiana di spargimento di sangue non sembra intenzionata a mettere la parola “fine”. Bisogna affermarlo con chiarezza e senza equivoci: non ci troviamo di fronte a una “guerra di religione”, ma di fronte a una “guerra di interessi”. Una guerra di interessi articolati e di varia natura, all’interno della quale i veri primi “attori” muovono le fila, e i comprimari seguono (volenti o loro malgrado) le direttive di questa o quell’altra “parte” dominante il gioco.
Una dimostrazione superficiale la sta offrendo Hollande che, pur agendo già sul campo, non riesce a mettere insieme una “vera” coalizione per controbattere il terrorismo jihadista: fino ad oggi, infatti, manca una condivisione complessiva, della progettualità di contrasto al cosiddetto Califfato nero proprio perché gli interessi sono di natura diversa e contrastanti, in collisione continua.
Il quadro della situazione è chiaro: è sufficiente analizzare lo svolgersi degli eventi che sono sotto gli occhi di tutti. I comportamenti equivoci sono palesi, non possono rimanere nascosti. Tutti dicono: per fronteggiare il terrorismo non bastano le parole. Ed è vero, così come è vero che le parole non vengono sostituite da decisioni concrete. Manca una volontà, almeno al momento, perché è mancata la volontà di sedersi attorno a un tavolo, come avvenne a Yalta, orsono secoli e secoli di memoria perduta. Nessuno dei protagonisti è disposto a fare un passo indietro, proiettati tutti verso un futuro incerto preceduto dall’incertezza.
In questo contesto l’Europa si presenta come un microcosmo parcellizzato, condizionato nelle scelte dalle grandi potenze che non trovano un punto d’incontro. Punto d’incontro che, in queste condizioni, non possono ovviamente trovare. C’è, dall’altra parte, il punto di scontro, il punto focale: la permanenza di Assad alla guida della Siria. Permanenza osteggiata in primissima istanza dagli Stati Uniti, poi dalla Turchia e quindi dai molteplici satelliti; permanenza di Assad sostenuta veementemente, dall’altra parte, da Russia, Iran e satelliti vari.
Il nodo non è solo questo: a monte c’è l’intento di cambiare la “composizione” geopolitica militare del Medio Oriente, come abbiamo avuto modo già di scrivere. In merito, l’ultima “proposta”, in ordine di tempo, è quella che proviene da John Bolton, ex ambasciatore Usa all’Onu ed ex viceministro degli Esteri di George W. Bush. Come ha scritto ieri (26 novembre) sul Corriere della Sera Massimo Gaggi: Sconfiggere l’Isis ma non per tornare alla divisione precedente dei confini tra Siria e Iraq: meglio costruire un nuovo Stato sunnita nell’area già occupata dallo Stato Islamico e in quelle che il «califfo» sta cercando di conquistare (…) La proposta della creazione di un Sunnistan è anch’essa appoggiata su una nuvola d’impraticabilità, visto il caos inestricabile che regna nella regione e la probabile fiera opposizione di alcune potenze – sicuramente Russia e Iran, ma nemmeno la Turchia sarebbe felice – a un simile progetto. Eppure l’idea è suggestiva e fa discutere. Se non altro perché mette in luce una delle cause di debolezza dell’Occidente: la mancanza di una visione che vada oltre la distruzione dell’Isis. Cancellare lo Stato Islamico per fare cosa? Per tornare ai confini dell’accordo Sykes-Picot, il patto tra due potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia, che nel 1916 portò alla definizione di frontiere irachene tracciate artificialmente da alcuni burocrati? Da anni molti analisti sostengono che la realtà attuale del Medio Oriente richiederebbe ben altro, ma nessuno è stato in grado di mettere in piedi un’iniziativa politica di un qualche spessore (…). Se non fosse per i tragici avvenimenti che lo caratterizzano, oseremmo dire che il terrorismo jihadista/Isis, costituisce uno strumento/mezzo per finalità che stanno al di fuori della stessa sfera dei Paesi del Medio Oriente.
Dopo il 13 novembre di Parigi la situazione è degenerata ulteriormente (salto di qualità, o errore tattico dei jihadisti?) e ora è molto più complicato trovare soluzioni che possano accontentare tutte le parti in causa, tenuto conto che gli accadimenti che ogni nuovo giorno ci presenta (vedi il jet russo abbattuto arbitrariamente o strumentalmente? dalla Turchia) inaspriscono i toni e rendono ancora più precario un (im)possibile dialogo. Da questo punto di vista le energie che Hollande continua a spendere per creare una coalizione adeguata per battere il terrorismo, potrebbero andare disperse.
Quale ruolo assumere fra gli opposti interessi? Quello dell’Italia è destinato a rimanere ambiguo se pur marginale: innanzitutto perché il nostro Paese (lo sappiamo tutti) è al “servizio di…”, poi perché l’Italia non può permettersi di mandare a morire i propri militari in terra araba, così come non può permettersi di vedere i propri giovani saltare in aria mentre prendono una pizza al ristorante vicino casa. I problemi, pertanto, restano e la storia a puntate del terrorismo jihadista è destinata a proseguire, seminando morti a destra e a manca.